Leonardo

Fascicolo 12


in "Manipoli"
Per una critica
di Giuliano il Sofista (Giuseppe Prezzolini)
pp. 22-23


p. 22


p. 23



   Benedetto Croce è un uomo di grande attività; anzi di straordinaria attività e di molto varia attività. La quale gli permette di schernire oggi i cervelli fatti unicamente di schede, e di dare domani alla luce una magnifica Bibliografia Vichiana; che gli concede d'occuparsi con competenza, il che è molto, e mettendovi del proprio, il che è più, di economia politica e di estetica, di letteratura comparata e di storia, di gnoseologia e di logica; e come se non bastasse gli pa il lusso di carezzare ogni tanto le spalle prurigginose di qualche critico della sua Estetica. Vario, nel suo dominio intellettuale, come un uomo della Rinascita, è saldo nelle sue fedi come un uomo del Medio Evo. É veramente un filosofo.
   Ciò spiega, e ciò soltanto, come si sia voluto gentilmente occupare del mio opuscolo sul «Linguaggio come causa d'errore» e come nella sua Critica (20 Marzo 1904 p. 150-153) abbia dedicato alle mie ventotto, tre sue pagine di lodi e dí critiche.
   Ma non voglio continuare su questo tono, per non sembrare di volere mettere in pari il conto corrente dei complimenti fra me e lui. Lo ringrazio delle lodi, ma più ancora delle critiche; e per non mancare al mio nome di battaglia vedrò di rispondergli alcuna cosa.
   Egli critica i due più importanti punti del mio scritto; il linguaggio come causa d'errore — l'affermazione della incomunicabilità degli stati interni. Ma in realtà, i due punti sono uno solo, e si posson ridurre appunto al secondo; io ho infatti affermato che il linguaggio è causa d'errore, soltanto quando lo si creda capace di comunicare í nostri stati interni. Ed ho cominciato con esempio della psicologia, continuato poi con quelli della storia dell'arte e della poesia; dovunque il linguaggio vuol essere reso veicolo di comunicazione esso fa errare; quando invece è limitato al solo scopo di azione, esso è uno strumento eccellente.
   Ora sulla capacità di comunicare il Croce ragiona, così: «Un individuo non ha coscienza dei suoi stati psichici se non perché se li rappresenta; ma una volta che se li è rappresentati, può rievocarli all'infinito. O perchè, se li rievoca quel primo, che pure per altri rispetti è diventato estraneo a se medesimo, non potranno rievocarli gli altri individui che si dicono estranei?» (p. 152).
   Qui appunto sta l'illusione generale che ci fa credere alla comunicabilità; ed è il considerare la memoria come ripetizione, non come creazione. Ogni fatto psichico è nuovo; ogni istante muore e non si ripete più; ognì attimo di vita, è un mondo intero che si confonde nel caos del passato, incapace a tornarne fuori eguale, come una goccia d'acqua confusa col mare. Noi non rievochiamo nulla, ma continuamente creiamo; e i nostri ricordi non sono che nuove vite. Come fa il Croce ad ammettere che un individuo che «per altri rispetti è diventato estraneo a sè stesso» si rappresenti gli stati di coscienza passati? Forse che l'individuo non è tutta una unità, di cui cangiare una parte è cangiare il tutto? la psiche non è forse fusione, invece che giusta-posizione?
   E ammesso anche che i fatti psichici passati si ripetessero, come lo potremmo sapere? per saperlo bisognerebbe confrontare il nostro ricordo presente, col fatto psichico passalo; cioè essere nell'oggi e nello ieri. La memoria come ripetizione è una affermazione contradittoria.
   Rassegnamoci dunque ad essere dei mondi in continua creazione, consideriamo il nostro individuo d'un minuto fà, così lontano e così separato da noi, quanto la psicologia d'un cinese da quella d'un greco; e soltanto per ingannare le nostre ore di condanna a vita cerchiamo di passare con giochi più nobili e più attraenti il tempo che ancora ci resta a scontare.
   Avrei da dire molte altre cose. Credo che tutte deriverebbero però da una differenza fondamentale fra noi e il Croce; noi siamo piuttosto psicologi che logici e piuttosto goditori che credenti. Il Croce può ancora fare la critica filosofica col bilancio degli errori e della verità; io la faccio invece con quello della utilità; e nel fine del mio lavoro sulla Contingenza ho scritto un capitolo sulla utilità personale.
   La Contingenza è un albergo ideale posto a un crocicchio di vie; vi si incontrano idealisti e materialisti, neomistici e scettici, cattolici e nietzscheani; tutti vengono a prendervi un buon lavacro che tolga i vecchiumi, liberi dalla polvere della via, e restituisca la freschezza della vita. Ma dopo, tutti ripartono per la loro strada; e il luogo di convegno è anche il luogo della separazione; non si fa a tempo a salutare i nuovi venuti, che bisogna salutare i partenti.
   Benedetto Croce grida: Viva la Contingenza! e sia pure. Ma come conciliare questa sua simpatia, con quella per Hegel? Non gli ricorda forse questo nome quanto sarà breve il nostro incontro contingentista?


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